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  • Immagine del redattoreDiana Letizia

Roberto Marchesini: "Cane utile, cane pet e cane compagno: così è cambiata la mia visione"


Il nuovo libro del fondantore dell'approccio cognitivo zooantropologico
Educazione cinofila di Roberto Marchesini

A distanza di quindici anni da “Pedagogia cinofila” arriva “Educazione cinofila”. L’autore è Roberto Marchesini, filosofo e etologo, considerato uno degli esponenti più importanti nel mondo della zooantropologia, disciplina che studia la relazione tra l’essere umano e gli animali da una prospettiva non antropocentrica. Le sue ricerche sui cani hanno rivoluzionato il modo di concepire il rapporto con gli uomini. Sul suo approccio si basano le più moderne scuole di educazione cinofila. Il libro, edito da Apeiron, è disponibile online dal 7 maggio su www.marchesinietologia.it e sarà in tutte le librerie e altri siti come Amazon e Ibs da fine settembre. Abbiamo avuto la possibilità di leggerlo in anteprima esclusiva.





Lei è punto di riferimento in Italia e all’estero per educatori, istruttori cinofili e veterinari comportamentalisti. Cosa vuol dire “approccio cognitivo zooantropologico”?


Significa pensare al cane come un individuo che ha una capacità di relazionarsi con il mondo attraverso delle rappresentazioni. Osservare il cane come un’entità cognitiva significa pensare che tutte le sue dotazioni, innate e apprese, sono degli strumenti che usa e di cui è titolare. Bisogna uscire dalla concezione dell’animale come una “macchina” che è ancora molto presente: si ritiene che il cane e gli altri esseri viventi diversi dall’uomo siano mossi da automatismi. L’approccio cognitivo zooantropologico mette in discussione proprio questo, con diverse interpretazioni. La mia è basata sulla visione delle conoscenze come strumenti che il soggetto utilizza insieme all’esperienza in modo libero. La zooatropologia considera poi fondamentale la particolarità della relazione con gli animali: una tipologia di rapporto che non è come quella tra gli esseri umani ma un rapporto interspecie che ha delle caratteristiche che vengono studiate non solo dalla psicologia relazionale ma nello specifico dall’etologia.


Che differenza c’è tra metodo e approccio?


Si parla di approccio come interpretazione di un fenomeno: l’apprendimento, il comportamento, la relazione, il modo di comunicare. E vuol dire interpretare quello che sta avvenendo: osservo il fenomeno e lo vedo in un certo modo. In un approccio non cognitivo ritengo che l’agire del cane sia frutto di condizionamenti. Il metodo invece è dato dal passaggio di conoscenze e dalla costruzione delle esperienze. La metodologia è come si lavora più che come si interpreta.


Che differenza c’è tra behaviorismo, approccio cognitivo zooantropologico e addestramento coercitivo?

E’ importante sottolineare prima di tutto che educazione, istruzione e addestramento non sono metodologie di lavoro ma sono tre ambiti che perseguono obiettivi differenti e non alternativi. L’educazione è soprattutto legata alla formazione del cucciolo in età evolutiva. L’istruzione è il lavoro su soggetti adulti con particolari difficoltà adattative e l’addestramento è la costruzione di binomi che facciano determinate attività insieme. Sono tre ambiti che perseguono degli obiettivi differenti e non alternativi. La didattica cognitivo zooantropologica è basata soprattutto sulle esperienze del soggetto, sui processi evolutivi. Parte dal cane per creare il coinvolgimento, è basata sul concetto di motivazione. Si lavora con il cane ritenendo che sia lui il primo interessato a fare quell’attività: c’è un ingaggio motivazionale. La didattica behaviorista è invece fortemente legata alla ricompensa: ti insegno una cosa, la fai e ti do un bocconcino. Il lavoro sul cane si basa dunque sul premio, non sulle sue motivazioni, con il cosiddetto “rinforzo positivo”. L’approccio classico, invece, lavora sulla gestione e il controllo del cane. La vera differenza è l’idea dell’entità che si ha, della sua individualità e delle sue capacità cognitive.


Cosa è rimasto ancora di quest’ultimo modo di “concepire” il cane? E perché ancora tanti credono che l’addestramento coercitivo sia il più efficace?


Quando si educa qualcuno dovresti insegnare delle cose ma dovresti anche essere in grado di chiudere dei comportamenti inappropriati. E’ uno degli aspetti più importanti, perché c’è pure la visione dell’assecondare, del lasciar fare al cane senza intervenire. Una modalità ancora applicata da parte di tutta una certa tradizione che non mi appartiene. Io non ho approccio coercitivo, ovviamente, ma spesso noto che ci sono tante persone che cadono nell’opposto: lavorano sui comportamenti appropriati e molto spesso ignorano quelli che non lo sono. Dal mio punto di vista l’educazione cinofila si basa su incentivazione dei primi e chiusura dei secondi. Mi riferisco esclusivamente alle funzioni adattattive: un cane che mette in atto comportamenti di aggressione nei confronti dell’uomo avrà meno possibilità di inserimento nella comunità umana. Penso al cane, a come metterlo nelle migliori condizioni per vivere in pienezza il contesto. Non impongo delle regole antropocentricamente, ma valuto la situazione per renderlo più inseribile. E’ però inevitabile che per dare un indirizzo di crescita a un soggetto in età evolutiva bisogna sì incentivare ma anche porre dei limiti.

Il grande errore è che ci sia stata una polarizzazione da una parte sul metodo coercitivo che chiude in un modo forte, pregiudizievole per l’animale e dall’altra sull’approccio cosiddetto “gentilista” che consente qualsiasi comportamento. Nel momento in cui ci si trovava di fronte a cani tranquilli, assecondanti, allora si andava sul sicuro. Ma nel caso di cani con caratteri più decisi, si finiva puntualmente nel coercitivo.

Io insegno innanzitutto le chiusure ai miei corsi: anche in questo libro ne sottolineo l’importanza come capacità di non arrivare a fare sì che il cane faccia una cosa e poi punirlo, ma prevenire. Nel momento in cui il cane si orienta, devo saper mettere in atto un determinato comportamento. Il proprietario deve essere qualcuno per quel cane: se il cane non ti considera non sei niente per lui. Sia chiaro: non possiamo essere padroni assoluti, ma nemmeno soggetti deficitari di accreditamento come spesso vedo che accade. Non è una tecnica quella che ti aiuta a gestire un guinzaglio, ma il rapporto che hai con il tuo compagno e quello che si è spesso verificato è relativo all’aver negato qualsiasi forma di accreditamento: così da una parte l’uomo era il “padre padrone” e dall’altra il cane veniva visto come il “figlio minore”.


La parola chiave del rapporto unico che lega le due specie è dunque relazione. Cosa vuol dire tra un cane e un essere umano?


In questo libro c’è un grande passaggio applicativo. Ho voluto mettere in discussione ciò che avevo scritto in “Pedagogia cinofila”: c’è una differenza concettuale, didattica, interpretativa molto forte. Il primo è stato un libro rivoluzionario quando è uscito: ha formato generazioni di educatori cinofili e tante persone che hanno fondato delle scuole hanno usato quel libro come base. Ma non lo sento più mio: è ancora fortemente legato a un’idea di “pet” (“cane da affezione” n.d.r.) in cui non mi riconosco più. Per me la relazione col cane oggi è da analizzare come molto più libera, aperta e meno di tipo affettivo. E’ un sodalizio, un rapporto di complicità e di attenzione alle caratteristiche e ai talenti specifici del cane. Io parlo di un superamento del concetto di animali d’affezione. La relazione viene così rimessa in discussione sulla base di un maggiore incontro.


La relazione è mediazione tra le parti. Quanto secondo lei è ancora difficile far comprendere alle persone che il cane ha appunto una sua individualità?


Sono fiducioso e mi auguro che ci sia sempre di più questa apertura mentale. A volte mi rendo conto però anche di quelli che sono i limiti della contemporaneità. Quello che noto è una grande voglia di riscoprire l’individualità nel mondo animale e in questo senso sono positivo. D’altra parte vedo che però c’è ancora una forte tendenza e anche una difficoltà a leggere la diversità. Viviamo in un contesto sociale in cui sono aumentate deficienza empatica e pratiche narcisistiche. L’utilizzo scorretto delle reti sociali e degli smartphone ha allontanato gli esseri umani dalla natura. La natura non ti asseconda: devi chiedere il permesso, devi sviluppare capacità empatica, devi capire che l’altro è diverso da te. Nei giovani c’è forte questa tendenza a cercare nell’altro un uguale per forza. E’ come se avessimo bisogno di relazioni rispecchianti anziché decentranti. Così la relazione con il cane rischia di diventare appunto rispecchiante perché il cane non ti manda “a quel paese” se fai cose sbagliate e questo si inserisce all’interno di una logica stile Facebook: c’è una prevalenza a un meccanismo che prevede il “mi tengo gli amici che mi mettono i like” e non quelli che mi criticano che, se lo fanno, li elimino.


Come è cambiata nella società odierna la percezione del cane? Lei parla di “cane utile - cane pet - cane compagno”, cosa vuol dire?


Non si può mai dire che qualcosa è cambiato in termini assoluti: una società è sempre a più strati e queste tre visioni del cane le abbiamo ancora oggi. Io penso che con un cane, se lo si fa bene, si può fare qualsiasi cosa. Penso ai cani da difesa, quelli che lavorano nella protezione civile ad esempio. Io non sono contro la prestazione in sé: sono contro l’idea che il cane sia considerato una specie di strumento, cosa che accade ancora. Penso ai cani chiusi nei serragli e fatti uscire solo per andare a caccia o ai cani tenuti alla catena. Il maltrattamento avviene non solo quando è fisico, ma tutte le volte che consideri il cane un oggetto che riponi dentro un cassetto e lo prendi quando ne hai bisogno. La visione del cane è cambiata però nel corso del tempo: negli ultimi tre decenni si è passati al concetto di animale d’affezione: cane da compagnia, dispensatore d’affetto, d’amore. Tutte cose belle rispetto a quella di solo “oggetto” ma è stata un’evoluzione che però solo apparentemente ha migliorato la condizione del cane che è entrato nelle case godendo di benefici.


Il cane è un ausiliario: qualunque cane ti guarda costantemente per dire: “Cosa facciamo insieme?” e ti propone un’attività, si mette a disposizione. Non considerare questo significa maltrattarlo, seppure con carezze, bocconcini e calore domestico. E’ una negazione della sua natura. Oggi vedo che nei giovani c’è maggiore disponibilità a prendere in considerazione questo aspetto, un’attenzione verso le caratteristiche di razza: i cani non sono tutti uguali, ogni comportamento che un singolo individuo esprime è un bisogno. E oggi dunque ci sono ancora tutte e tre le tipologie nella nostra società: cani strumentalizzati, cani d’affezione e cani che vengono visti finalmente come compagni di vita. La prevalenza del “pet” è ancora assoluta, sono pochi ormai quelli che marginalizzano il cane come oggetto e vedo in crescita le persone che lo considerano nella sua individualità. E’ in atto un cambiamento profondo nella relazione.


Siamo in una fase storica in cui come lei scrive “il cane diventa importante perché va a surrogare relazioni mancanti”. Questo anche vuol dire “negazione del cane”?


Il “cane surrogato” è il cane sofferente. Le persone non guardano il cane, ma ciò che il cane va a sostituire nella loro vita: si aspettano un figlio, un partner, una base sicura. Lo trasformano in qualcosa che non rispetta l’altro. La gente dice: “Amo il cane”. Pensano di amare gli animali così. In realtà riversano i loro bisogni e le loro aspettative sul cane. E’ una sorta di narcisismo: il cane non è importante perché va a a sostituire delle mancanze ma perché è l’altro lato della medaglia umana. Fa parte della nostra storia: l’essere umano si è evoluto nella relazione con il cane, la nostra dimensione di vita ha anche fare con la caninità. Oggi poche persone si mettono intorno a un fuoco la sera e raccontano le loro avventure come facevano i nostri progenitori nel Paleolitico, ma certe dimensioni non le abbiamo però dimenticate: quelle caratteristiche ce l’abbiamo ancora dentro e la relazione con il cane ci ha sempre accompagnato sin dai tempi più remoti.


Il cane è un individuo, dotato di emozioni, cognizione e motivazioni. Come lei sottolinea nel libro “non è un oggetto liquido”


Il cane è un mammifero e come tale è un animale che ha delle emozioni e delle motivazioni. Ha la stessa struttura encefalica della nostra, le stesse strutture corticali. Se facciamo anatomia comparata, prendiamo il cervello di un cane e quello di un essere umano, la costituzione è la stessa: non si può pensare che da una parte c’è un essere pensante e dall’altra no. Non si può guardare agli altri esseri viventi come oggetti. Andava bene nel ‘600, quando ancora non si sapeva nulla di Neurobiologia ma oggi è inconcepibile. Ogni specie ha avuto una sua evoluzione e ha costruito una sua specifica intelligenza. Il punto dunque non è se il cane è “quasi” intelligente come noi, ma capire che è intelligente diversamente da noi. Ha un suo modo di vedere le cose, di risolvere i problemi, di stare nel mondo, nel momento. Non dobbiamo negargli questo aspetto fondamentale né antropomorfizzarlo (attribuire caratteristiche e qualità umane ad altri esseri viventi n.d.r.) ma rispettare le sue tendenze, le sue propensioni e capire che stiamo vivendo con un partner unico: conoscerlo e venirgli incontro.


Arriviamo così all’esigenza dell’educazione cinofila. Chi è un educatore cinofilo? Cosa fa?


E’ un educatore di relazione, ha consapevolezza che il cane è nelle mani del proprietario e l’indirizzo di crescita viene dato nella quotidianità che sfugge dall’educatore. E’ un ruolo delicato soprattutto per il lato umano del rapporto: una persona viene da te per il cane, viene pensando di “metterlo a posto” e non di mettersi in gioco. Non è facile educare persone già adulte, del resto. L’educatore deve fare un’acrobazia inevitabile: andare a aiutare quella persona a costruire una relazione corretta con il cane attraverso una valutazione dell’ambiente di vita dell’animale e del profilo del proprietario per poi individuare un progetto di crescita comune fatto di condivisione, complicità e adattamento reciproco. E’ un lavorare sulla relazione in tutti i più piccoli particolari: le esperienze da fare con il cane, come insegnare le cose, come costruire un rapporto affettivo adeguato, come creare un’affiliazione tra compagni che sono complici e essere accreditati dal proprio cane.


L’educatore, il cane e l’essere umano. Lei descrive questi tre soggetti in “un’attività di triangolazione”. Quello dell’educatore è dunque un ruolo delicatissimo che necessita di competenze che vanno a toccare tasti molto intimi e con importanti risvolti psicologici e sociali che riguardano “sfere private”. Secondo lei dunque che tipo di formazione di base deve avere chi vuole diventare educatore cinofilo?


Faccio fatica a pensare a una selezione iniziale. La mia esperienza è che molte persone che ho incontrato solo col tempo si sono rivelate poi degli ottimi educatori. Non credo alle valutazioni a priori, in qualunque professione la cosa più importante è l’ostinazione, la persistenza, la voglia di migliorarsi. Le persone si vedono alla fine del viaggio e mai all’inizio. Quello che io faccio nei corsi è di lavorare sull’entusiasmo delle persone. La volontà e la determinazione sono fondamentali.


Tra le caratteristiche che dovrebbe avere un educatore cinofilo lei sottolinea tra le altre la necessità di un’alta dose di umiltà e il rispetto nei confronti di altri professionisti anche se la pensano in maniera differente. Con tutta la sua esperienza, quanti educatori così ha mai incontrato?


Arroganza e presunzione sono diffuse. Mi rendo conto invece che più vai avanti, più studi e più invece dovresti accorgerti di quanto sei ignorante. L’umiltà è la misura della professionalità in ogni ambito. La capacità di ascoltare tutti non vuol dire conformarsi agli altri ma cercare di capire quello che hanno da dire in base alla loro esperienza. Ascoltare e rispettare: sono punti irrinunciabili. L’educatore deve essere prima di tutto “educato” lui stesso, poi “cinofilo”.


Nel suo libro lei spiega l’importanza delle prime fasi di vita del cane in relazione soprattutto al rapporto con la madre e i fratelli. Quanto è importante renderlo noto non solo a chi fa dell’educazione cinofila una professione ma soprattutto a quelle persone che prelevano i cani dal territorio convinti di “salvarli” o anche a chi vende cuccioli?


L’identità di un cane si sviluppa nei primi mesi di vita. E’ il momento in cui il cucciolo costruisce il suo carattere e inizia il suo adattamento al mondo. Prende familiarità con le cose, apprende i modi per relazionarsi con i conspecifici e gli esseri umani, costruisce la sua solidità caratteriale per essere capace di affrontare le difficoltà del vivere. Grazie ai primi due, tre mesi di vita, se il processo di crescita è condotto bene, avremo un cane con una forte coesione che saprà superare le difficoltà. Altrimenti sarà un soggetto vulnerabile che poi avrà problemi comportamentali. Gran parte di quelli che si notano nel cane adulto hanno la loro radice proprio in quel periodo. E’ un momento molto importante che va affrontato con attenzione.


La convivenza con la mamma consente al cucciolo di acquisire tutti gli strumenti socio-relazionali fondamentali. E’ il periodo in cui apprende ad esempio le capacità di mediazione e di comunicazione: come se partecipasse a un “modulo di base delle relazioni” che gli viene insegnato dalla genitrice. Se lo allontaniamo prematuramente allora sì che andrà incontro a dei disturbi. Nei primi mesi si costruisce “l’adattamento”: il soggetto si fa un immagine di quello che è e sarà il suo mondo. Occorre prestare tanta attenzione, tenerlo in un luogo adeguato: rendergli possibile il contatto con l’ambiente in cui crescerà e consentirgli di fare esperienza.


Immaginiamo un cucciolo che vive isolato e poi da adulto finisce a vivere in centro città: sarà ipersensibile e non in grado di compensare, vivendo con uno stress tremendo tutto quello che lo circonda. Accade spesso che un cucciolo che è cresciuto in un ambiente ferale o semiferale, un randagio senza contatto con essere umano, un cane che è stato “educato dalla strada” e dai conspecifici di colpo vengano prelevati e messi in un appartamento o in un canile. E’ un errore tremendo: come pensare che una persona che cresce in una città sia improvvisamente catapultata nella foresta amazzonica. Stiamo parlando di cani elusivi, non sono fobici: possono manifestare la loro difficoltà attraverso comportamenti di paura o irritabilità ma sono cani che in realtà vivono con difficoltà la relazione intima con l’essere umano. Possono arrivare anche a stare vicini all’uomo ma non si può pretendere di fare come se fossero vissuti sin da piccoli con noi. E’ necessario che le persone sappiano che i cani cresciuti liberi vanno lasciati in libertà.


Il concetto di “predisposizione” può aiutare le persone a capire che ogni cane è un individuo a sé, soprattutto perché toglie il velo a - come lei ha scritto - “l’illusione che tutti i cani, al di là dell’appartenenza di razza, vadano educati allo stesso modo e possano trovare soddisfacente lo stesso regime di vita”. Che cosa è dunque la predisposizione in un cane?


Noto sempre che c’è questa tendenza a chiedere se il cane abbia caratteristiche ereditarie o apprese. E’ una dicotomia stupida. Il cane è il frutto di innato e appreso. Ci sono gli strumenti che consentono al cane di fare apprendimento, mentre altre capacità sono dovute all’esperienza: come se fossero i mattoncini del Lego. Il punto centrale è che il cane ha delle caratteristiche di appartenenza alla specie, come quelle genetiche legate al tipo di razza e che valgono anche per i meticci. Sono basi molto importanti perché attraverso queste poi si configurano i loro processi di apprendimento. Si deve pensare a un incontro di ciò che è innato con l'ambiente poi. Prima di adottare un cane di una certa razza la persona si deve fare delle domande e avrà delle risposte che però allo stesso tempo sono aperte perché appunto si considera il contesto e l’individualità. Ma non è che non ci sono delle “basi”.


Che cosa vuol dire cinologia? Che differenza c’è con la parola cinofilia?


La cinologia è lo studio generale del cane in tutte le sue manifestazioni, anche zootecniche, di studio dei cani liberi e delle caratteristiche ereditarie. La cinofilia è un preciso ambito che si basa sulla relazione con i cani, è un mondo di tipo più applicativo.


Tornando alla relazione, nel capitolo di riferimento lei rivede la piramide di Maslow che ancora viene spiegata ai corsi di educazione cinofila come fondamentale per capire le necessità del cane. In che modo va appunto rivista la teoria dello psicologo statunitense in riferimento alla specie che ci è accanto?


Nella visione welfarista (quella che si occupa del concetto di benessere n.d.r.) in tutti questi anni c’è stata l’idea prevalente che vi sia una gerarchia dei bisogni, appunto quelli indicati dalla cosiddetta Piramide di Maslow: prima quelli fisiologici, poi quelli di sicurezza e protezione. A seguire i bisogni di appartenenza, di successo e infine i bisogni di realizzazione di sé. Io ritengo che non c’è un bisogno che è importante in assoluto, ma che tale diventa se viene a mancare. Oggi per un cane la necessità di avere del cibo è meno importante - sto pensando a quelli che vivono nelle nostre case a cui è garantito - rispetto a quella invece di esprimere il suo comportamento. Bisogna così ripensare a una piramide con bisogni conseguenti e che interagiscono. Se il cane non fa attività, ad esempio, non esaudisce le sue necessità espressive e ciò aumenta la sua alterazione emotiva. Tutti i i bisogni sono importanti.


“Esiste la leadership?”: è il nome di un paragrafo del suo libro. Gliela pongo come domanda


Quando si parla di “leadership” un essere umano pensa subito ai politici e viene fuorviato. Invece per capire cosa si intende proviamo a pensare al ruolo di un commercialista, di un avvocato nelle nostre vite. Ovvero a chi si prende cura di noi con le sue competenze. Il punto fondamentale per un cane è sapere che c’è qualcuno che guida, che coordina che sa dove la nave sta andando: c’è qualcuno al timone che ci pensa.


Non ha nulla a che fare con quella parola che è stata erroneamente attribuita alla relazione tra le due specie: “dominanza”. Questo termine è utile per spiegare ciò che ad esempio si realizza tra due cani che non si conoscono: c’è un confronto in cui da una parte c’è un dominante, dall’altra il sottomesso e così semplicemente si evita la rissa.


La leadership tra un umano e un cane invece nasce nel momento in cui il cane sa che c’è qualcuno che si prende in carico i problemi, che sa gestire le situazioni e coordina quella che è una “squadra”. E’ importante che ciò avvenga: perché quando il cane si fida di noi è come se pensasse: “Se c’è un problema lui lo risolve”. E ciò non avviene solo nella relazione a due: si fida perché ci ha visto con gli altri anche, comprende che il suo compagno umano è capace di gestire situazioni anche difficili. Il cane lo sente quando le persone sono incerte, insicure e ce ne sono tante che continuamente gli chiedono di essere loro rassicurati dalla sua presenza, tanto da fargli pensare qualcosa tipo: “Se non ti prendo io per mano siamo entrambi finiti”. E questo, naturalmente, non deve accadere.


In un modo ideale, in cui il cane è davvero vissuto e rispettato secondo il suo approccio dagli esseri umani, l’educatore cinofilo ritiene che sarebbe ancora una figura necessaria?

C‘è sempre bisogno di qualcuno che ci aiuti nelle singolarità delle nostre vite e che sia in grado di dare delle risposte a situazioni nuove. L’educatore non è un venditore di magliette, non c’è un modello che vada bene per tutti ma si applica una prassi educativa che non è mai un ripetere ma un creare una situazione e conformarla nel rispetto dell’unicità della relazione. Ogni cane, ogni essere umano e ogni famiglia sono unici. La figura dell’educatore per me è importante non solo in cinofilia: anche le persone che hanno dei figli dovrebbero avere un’educazione preventiva. Molti errori si fanno per ignoranza e non per cattiveria.

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