Diana Letizia
"Space Dogs", i registi: «Così i randagi di Mosca ci hanno permesso di far parte del branco»
Aggiornamento: 4 nov 2020

Il 3 novembre del 1957 Laika fu il primo essere vivente mandato in orbita dai sovietici. In una dichiarazione ufficiale, Oleg Gazenko, lo scienziato a capo del progetto per la corsa alla conquista dello spazio contro gli Stati Uniti, dichiarò che fosse morta già a cinque ore dal lancio. Dopo 162 giorni la capsula esplose rientrando nell'atmosfera terrestre. Sulle tracce delle ceneri di quel "cane dello spazio" e dei suoi eredi si sono messi due registi, Elsa Kremser e Levin Peter, che hanno preso spunto dal fatto che Laika in realtà fosse una randagia di Mosca e da una legenda che racconta che sia tornata sulla Terra come un fantasma.
Filmato nella periferia della capitale russa, "Space Dogs" sarà presentato per la prima volta in Italia al Torino Film Festival il 28 novembre e Il Secolo XIX ha potuto vederlo in anteprima. Utilizzando una voce narrante, con immagini tratte anche dagli archivi sovietici e in assenza di qualsiasi giudizio morale, lo spettatore viene completamente catturato da una visione del mondo quanto più possibile non antropocentrica e girata al livello visivo del branco.
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Come è nata l’idea di questo film?
Levin Peter: «Ci venne in mente quattro, cinque anni fa. Era solo un parlare tra di noi, frequentavamo la scuola di cinematografia. Ci dicevamo: “Immagina come potrebbe essere un film dove i cani sono i veri protagonisti”. Poi ci siamo resi conto che potesse trasformarsi davvero in un prodotto cinematografico e abbiamo iniziato le ricerche. Ci venivano in mente diverse idee per dare vita a un documentario girato dalla prospettiva dei cani e a un certo punto abbiamo pensato alle operazioni spaziali dei sovietici, cercando all’inizio su Google notizie su Laika e gli altri cani e gli animali che erano stati utilizzati. Abbiamo poi fatto ricerche più approfondite e abbiamo scoperto che avevano fatto esperimenti sui randagi che vivevano nelle strade di Mosca. Ricordo perfettamente che è stato il nostro momento “wow”: quando realizzi che hai trovato la chiave per raccontare la storia che ti eri immaginato. E la nostra prende spunto così dalla vita di un “individuo”: una cagnetta che viveva per le strade e che poi è finita nello spazio per la propaganda dei russi».
Elsa Kremser: «La storia si intreccia con la mia vita personale da cui mi è arrivata l’ispirazione più profonda. I miei genitori erano degli allevatori di Lhasa Apso (razza tibetana, n.d.r.). Sono nata in mezzo ai cani, sono stata abituata ad essere circordata da loro e sono cresciuta allo stesso livello proprio dal punto di vista di come osservano la realtà: l’altezza da cui vedono il mondo la ricordo da quando, appunto, ero bambina. Aver vissuto con loro mi ha aiutato tanto: ho potuto sperimentare le esperienze con i randagi di Mosca come un tempo, come quando ero piccola in mezzo ai cani della mia famiglia. Stare con loro senza giudizio, senza alcun approccio preimpostato secondo regole e dettati umani ma davvero con quel senso di voler vedere e poi mostrare il mondo dalla loro stessa prospettiva. Gli occhi dei cani ci permettono di guardare al mondo con tanta purezza».
Dunque come era la vostra relazione con i cani prima del film e come è cambiata dopo aver girato Space Dogs?
Levin Peter: «A differenza di Elsa, io non ho mai avuto un cane nè ero mai entrato in una situazione di familiarità con i cani prima di questo film. Anzi, a dirla tutta ero molto impaurito da loro sin da quando ero bambino e ho dovuto superare questo terrore per lavorarci insieme. Ma devo dire che proprio i randagi mi hanno sempre meno spaventato rispetto a quando vedo i cani al guinzaglio. Sarà perchè penso: “Cosa farà il proprietario? Sarà capace di gestire la situazione?” e di questo ho ancora paura. Eppure mai ho provato questa sensazione con i cani liberi e questo perchè il loro linguaggio è molto più facile da comprendere per me rispetto ai cani con proprietari che ancora non so come “leggerli”. Ci è voluto un po’ per entrare in sintonia con i randagi ma è stato davvero speciale riuscire a osservarli. Io ero sempre un passo indietro rispetto agli altri ma alla fine ho capito qual è la grande differenza: la comunicazione con i cani al guinzaglio è complessa, è mediata dal proprietario. Un cane libero si rivolge direttamente a te e tu fai lo stesso».
Elsa Kremser: «Il mio concetto di cane è profondamente cambiato dopo i mesi di lavoro a Mosca, dopo aver incontrato tanti randagi e aver apprezzato quanto sono diversi gli uni dagli altri e poi nel momento di girare il film e convivere con loro ancora di più. Per me è proprio strano vedere ora i cani al guinzaglio e rivedo anche il mio passato in modo diverso. Penso ai miei genitori che portavano i cani alle esposizioni o quanto ci sembra normale che i nostri, quelli che vivono nelle case degli occidentali soprattutto, debbano essere educati, istruiti secondo regole sociali antropocentriche. Ecco io ho capito e ora so che la vita dei cani è tutt’altro. I randagi scelgono ciò che vogliono, non hanno padroni, hanno le loro regole e vivono una vita in piena libertà con tutto quello che comporta ovviamente. Percepisco ora i cani al guinzaglio come oppressi. Non voglio però essere fraintesa: non intendo tutti ovviamente e non generalizzo. Parlo solo della mia percezione intima nel rispetto dell’etologia e sono assolutamente attenta e favorevole alle sane relazioni tra cani domestici e uomini che funzionano bene secondo le regole sociali che comprendo vadano rispettate».
Come avete scelto i cani del film?
Elsa Kremser - «E’ stata una lunga ricerca, è durata diverse settimane. Abbiamo girato a lungo nei sobborghi di Mosca, nelle periferie. Volevamo un branco che fosse pro-attivo, che venisse spontaneamente in contatto con noi ma che non fosse del tutto abituato alla presenza fissa di esseri umani. E’ accaduto poi tutto per caso. Stavamo rientrando a casa, era tardi, eravamo stanchi e all’improvviso un cane ha attraversato la strada. Siamo saltati dalle macchine per seguirlo e non era parte del gruppo che poi abbiamo scelto ma ci ha portato da loro. Così siamo arrivati davanti al bar che si vede spesso nel film e i cani erano lì e noi abbiamo capito che era il branco giusto sul “set” giusto: zona periferica, la metro a pochi passi, passaggio di gente, un mix perfetto di varia umanità e cani. Il maschio protagonista poi del documentario aveva all’epoca solo sei mesi. Aveva un gran bel carattere e mi sono detta che saremmo dovuti rimanere con lui che aveva tutta una vita davanti di esperienze da fare e noi le avremmo raccontate attraverso i suoi occhi».
Levin Peter - «Sì, lui sarebbe stato il nostro “eroe”. Ce lo dicemmo: è il protagonista, farà tante cose e noi gli saremo accanto. Da quel momento sono passati altri sei mesi da quando abbiamo poi iniziato le riprese che sono durate tre mesi. Un anno e mezzo in tutto tra ricerche e shooting che ci hanno permesso di raccontare la storia dei randagi di Mosca.
Che tipo di relazione e che sentimenti sono entrati in gioco convivendo col branco?
Elsa Kremser - «Eravamo cinque persone e oguno di noi ha vissuto la sua esperienza, professionale e personale. Eravamo un branco di umani inclusi poi nel branco di quattro cani principalmente. Alcuni di noi avevano un approccio emotivo più distante e altri erano invece molto presi. Il momento più difficile è stato quando ce ne siamo andati. Con un attore ti saluti, puoi dirti addio a parole e ci si capisce, ovviamente. Con un cane non puoi farlo. Dire addio a un cane è difficile. Pensare che tu sai che non tornerai e allo stesso tempo sapere che loro si erano abituati a noi ormai. Ma i cani del “nostro” branco sono ancora tutti lì: stanno bene, vivono nel loro ambiente».
Levin Peter - «La nostra relazione con i randagi, per come l’ho vissuta io, è stata su livelli diversi: abbiamo passato tanto tempo insieme, abbiamo dormito con loro e li abbiamo seguiti e aspettati e i cani hanno fatto le stesse cose con noi. Da un altro punto di vista, però, noi eravamo lì per fare il nostro lavoro: c’erano soldi investiti e tempi da rispettare e soprattutto volevamo che emergessero loro come gli eroi del nostro racconto. Avevamo tempi di attesa lunghi: quando i cani dormono lo fanno per ore e a volte ci veniva da dire: “Forza, fate qualcosa!” (ride, n.d.r.). Il documentario però è una sfida, ci vuole pazienza e un forte equilibrio tra emotività e professionalità: vuoi proteggerli, ad esempio, ma allo stesso tempo vorresti che agiscano come se noi non ci fossimo e ciò ovviamente comporta i rischi che la vita gli pone davanti. Abbiamo compreso, però, a un certo punto che quanto più noi eravamo nervosi più loro ci facevano capire chiaramente che non era ciò che volevano da noi. Invece se c’era relax nel gruppo di umani avevano tanta voglia di condivedere delle esperienze con noi».
Elsa Kremser - «E’ vero. Se ci ponevamo a cuore aperto, tranquilli, li vedevi arrivare e avere una gran voglia di stare insieme a noi e mostrarci il loro mondo .“I nostri piani non sono più importanti dei loro” ci siamo detti a un certo punto e questo è stato un passaggio di svolta. I cani sono sfidanti, sfidano le nostre emozioni. Siamo passati dalla tensione di cercarli, durante la preparazione del film, fino al viverli profondamente seguendo i loro ritmi e guadagnando la loro fiducia. Tante volte, alla fine, erano loro che ci aspettavano per guidarci e intrattenerci addirittura. Ricordo un episodio: il cameramen aveva dovuto bloccare le riprese per un problema e loro si fermavano per aspettarlo».
La scena di cui si è discusso di più sui media internazionali è quella dell’attacco dei cani a un gatto. Ma perché, secondo voi, le persone si soffermano su un evento naturale e non sulle tante violenze che mostrate nel film perpetrate dagli uomini sugli animali?
Levin Peter - «Sì, la scena del gatto ha fatto molto scalpore e nemmeno ce l’aspettavamo. Penso che sia perché mostra una brutalità che non si incontra nella vita di tutti i giorni. Ma questo è anche il motivo per cui esiste il cinema: far vedere quello che non vedi normalmente. Quello che io ho capito, almeno fino ad ora, è che la discussione che ci segue è molto ricca e interessante e per me questo è il motivo per cui esiste il nostro lavoro. Capisco che a volte la gente arriva a un punto massimo di tolleranza in ciò che vede e che poi viene superato, ma un essere umano non può giudicare ciò che un cane fa secondo una nostra etica che poi per altre cose, appunto, non viene messa in pratica. Molti, in realtà, comprendono la naturalezza della scena e sanno che non possono “attaccare” un cane e quindi giudicano noi registi per aver filmato e non essere intervenuti. Noi abbiamo deciso di seguire i randagi nel loro ambiente, come animali “selvaggi” e sarebbe stato assurdo non mostrare la loro vita in toto. Quando guardiamo e discutiamo su quella scena il punto è che si sta parlando in realtà della moralità umana: ma questa è la nostra etica, non certo quella del cane».
Elsa Kremser - «E’ una delle scene più naturali del film. Si sopporta tutto quello che viene fatto dagli esseri umani, si tralascia un contesto fatto di una realtà a misura umana composta da macchine, traffico, night club, periferie degradate perché è quello che vediamo costantemente in qualsiasi città ma poi se succede qualcosa a un animale che consideriamo “domestico” ci sembra sbagliato. E invece questa è la natura e l’istinto omicida è normale per un animale: non è un taboo per i cani. Come registi abbiamo mostrato questo che è evidentemente percepito come “troppo” per le persone che preferiscono non guardare la realtà. Ma noi non volevamo certo far vedere degli animali “carini”, vestiti in costume come spesso si fa su YouTube e privati della loro personalità. Altra cosa importante per noi è stata quella di mostrare, invece, ciò che appunto gli uomini fanno agli animali e che si vede chiaramente nel film. Guardate cosa noi facciamo a loro è il messaggio».
Abbiamo ricordato la scena del gatto e come invece ce ne siano altre molto “potenti” che mettono in evidenza quello che la nostra specie fa alle altre. Ma c'è un passaggio in particolare che emerge e mette in risalto invece la meraviglia della relazione che si crea tra uomo e cane in uno scenario di miseria e desolazione in cui vivono entrambi...
Levin Peter - Sì, è il momento in cui un senzatetto rovista nella spazzatura e cerca anche cibo per i cani. E’ una scena importantissima. Non è l’unico a avere questo rapporto molto intenso e di rispetto con i randagi in quella zona, c’erano altri che davano da mangiare e parlavano con loro. Sono persone che vivono nelle strade o altri che lavorano nei locali: gente della notte. Hanno davvero una grande capacità empatica di entrare in contatto con i cani. Quell’incontro che abbiamo ripreso è l’unica scena nel film in cui un uomo parla a un cane. Abbiamo conosciuto quel senzatetto e anche con lui ci siamo confrontati ed è nato un rapporto tra di noi: ci ha dato il consenso per mostrare un momento per noi molto rappresentativo della forza di un rapporto unico come quello tra cane e umano. La verità di una relazione tra “randagi” di due specie diverse che si incontrano, condividono del tempo insieme e poi ognuno segue la sua strada».
Elsa Kremser - «Ci ha così coinvolto e colpito questo tipo di relazione che adesso stiamo pensando a una seconda parte del nostro documentario ma che non ha più a che fare con la storia di Laika ma che racconti proprio la vita di un senzatetto e un randagio che vivono insieme a un “branco” di persone e cani».
Cosa vi augurate che provi e che pensi, dunque, una persona che vede il vostro film?
Levin Peter - «Spero che persone come me, che non hanno avuto relazioni con i cani, prendano ispirazione. Che sia una prima volta anche per loro, che riescano davvero a “scendere” al livello dei cani: ovvero nell’andare in profondità nel mondo degli animali. Aver deciso di girare con le telecamere ad altezza loro per un film da vedere sul grande schermo consente a chi guarda, in 90 minuti, di vivere un’esperienza unica. La tecnica cinematografica che abbiamo usato ci ha aiutato a offrire una nuova visione del mondo e speriamo che molte persone così si lascino andare al ritmo dei cani, che vengano avviluppate nella loro percezione del tempo».
Elsa Kremser - «Io spero che gli spettatori cambino la loro opinione sugli animali e comprendano l'importanza della connesione con gli altri esseri viventi. Mi auguro che quando poi incontreranno dei cani nella loro vita quotidiana pensino che hanno di fronte dei soggetti dotati di una loro personalità, che hanno una loro vita e che non reagiscano più come se fossero di fronte a un giocattolo o con indifferenza. Abbiamo conosciuto e incontrato persone che dopo aver visto il nostro film ci hanno detto che non avevano nemmeno idea che esistessero i randagi».